Incendio (1982)

Giovanni Buzi: Come ho scoperto la pittura

L’incontro vivo che ho avuto la prima volta con la pittura è avvenuto per caso, alla luce di un sole caldo e in presenza d’una polvere fina e biancastra.

Avrò avuto una decina d’anni e scorrazzavo per i campi vicini al villaggio con una banda di miei coetanei. Eravamo soliti allontanarci dalle ultime case ed esplorare l’inizio di quel vasto mondo che s’estendeva tra colline e campi coltivati fin chissà dove. Oltre il fontanile ormai abbandonato saliva una strada asfaltata che portava a Roma. Il fontanile era il limite fissato dai genitori alle nostre scorribande. Giunti là qualcuno si sedeva sulla pietra grigia levigata come l’acciaio e dondolando le gambe diceva:
- Io resto qui, non ho più voglia di camminare.
- Fa come ti pare... - rispondevamo e ci lanciavamo correndo verso un mondo d’alberi e vigne, farfalle, fiori selvaggi, profumi...

A casa mia e dei miei amici non c’erano quadri, pitture vere. Le poche immagini, a parte foto stantie di nonni, matrimoni e cresime, erano quelle raffiguranti Madonne, Cristi e Santi. Immancabile una riproduzione della Madonna con Bambino sull’enorme letto nuziale dei genitori. Sempre la stessa; una donna in carne, rosa e florida a giudicare dal viso e le mani, uniche parti visibili del corpo. Una preziosa stoffa azzurra le copriva il capo, scendeva sulle spalle e serpeggiava poi morbida in numerose pieghe sul seno. Alle braccia aveva un pupo roseo e paffuto come lei. Entrambi erano aureolati da una corona di stelle sospese in aria per incanto. Dalle loro teste emanava una luminosità astratta. I due avevano le labbra rosa increspate da un perpetuo, dolcissimo sorriso. Ogni volta che lo guardavo mi faceva venire in mente il sapore delle caramelle ‘Rossana’. Deliziose, avvolte in carta trasparente rossa, al sapore di vaniglia, il guscio croccante e il cuore morbido morbido; ne mangiavo due e non avevo più fame per mezza giornata.

Quel ritratto per me non era una pittura, era la Madonna col Bambin Gesù e mai mi sarebbe venuto in mente d’immaginarli in un altro modo. Il fatto che fossero dipinti e non veri non mi poneva nessun problema. D’altra parte che ne sapevo io della differenza tra pittura e realtà? (differenza, a dire il vero, che ancora mi sfugge).

Avevo già visto in chiesa quadri di Martiri e Santi, bei vegliardi e gentili signore abbigliate con stoffe splendide e perle. Colombe e croci, fasci di luce divina e fronde d’alberi, campagne e vasti cieli anneriti da una fitta nebbia. Ma quelli erano San Biagio, Santa Lucia, Santa Giacinta, non era la pittura. Della pittura non avevo nessuna nozione, nessuna parola per definirla, per me non esisteva. Il ritratto della Madonna col Bambino sull’altar maggiore era un rettangolo annerito che non superava il metro quadrato. Si trovava molto in alto ed era il fulcro d’un turbine esteso sull’intera parete di putti, nuvole, schegge d’architettura e drappi il tutto attraversato da un’esplosione di raggi di luce divina. Raggi spessi, solidi, coperti come il resto da una lucentissima pelle d’oro. Il ritratto era sormontato da una corona gigante che si staccava di prepotenza dalla parete e poggiava su capitelli sostenuti da quattro colonne scanalate. Un potente colpo d’ali e due angioloni sostenevano il tutto a mezz’aria.

Io, già tendente al miope, abbagliato da tutto quell’oro, sistemato spesso negli ultimi banchi accanto all’entrata principale (per andarmene subito come la messa finiva), della Madonna col Bambino non vedevo granché. Pensavo che fosse la stessa identica di casa nostra. Si trovava allo stesso tempo sul letto dei miei genitori, su quello dei genitori dei miei amici e in chiesa. Tale mistero non mi inquietava. In quell’edificio dai soffitti altissimi in cui ogni parola s’amplificava e riecheggiava, tende di seta e broccato, candelabri d’argento, ostensori, reliquari tempestati di pietre preziose, statue sante, fasci di fiori, musiche d’organo, stucchi e incendi d’oro tutto era possibile, il Mistero era sempre presente, quotidiano e non c’erano domande da porsi. Ogni domanda, anche la più semplice: ‘Scusi, che ore sono?’, avrebbe risuonato rimbalzando da una colonna di marmo all’altra, da una doratura all’altra fino a perdersi tra i sorrisi beati degli angeli in volo eterno verso i cieli.

Così, ignaro della pittura, mi ritrovavo felice a correre e saltare con i miei amici tra le erbe alte, i mari di campi di grano, gli alberi da frutto rincorrendo a turno cavallette e ranocchi, i semi aerei dei fiori o semplicemente il vento. Un giorno il nostro volo fu interrotto da una grande costruzione semi diroccata, porte e finestre sprangate. Ci fermammo a guardarla stupiti.

- E quella catapecchia di chi è?

Sapere l’appartenenza d’ogni filo d’erba è vitale per figli di contadini.

- Bah, di sicuro di nessuno...

Chi avrebbe infatti lasciato un casale così malridotto, il terreno incolto, senza nemmeno una pianta di nocciole o un ulivo?... I nostri padri erano capaci di spremere il succo dalle pietre, come dicevano i pochi che non vivevano d’agricoltura nel villaggio, ed era vero.

- Ma è la Commenda! Non avvicinatevi! - urlò uno di noi.

La Commenda! Fummo presi dal panico; era quella la Commenda...

In paese se ne parlava il meno possibile, quello che sapevamo l’avevamo rubato a frasi bisbigliate, soffocate. La Commenda era un’antica chiesa sconsacrata fondata non si sa da chi né quando da evitare più della peste bubbonica. I contadini proprietari dei terreni accanto erano scansati come appestati. Chi poteva vendeva la terra anche per un boccone di pane, ma in paese nessuno la voleva e bisognava che abboccasse all’amo qualche Romano.

- Entriamo? - gridò uno di noi sorprendendosi della sua stessa audacia. Un brivido ci percorse le membra. Forzata una finestra entrammo.

Niente, a prima vista non c’era niente. Una vasta aula vuota rischiarata dal sole che entrava a fasci dal tetto in parte crollato.

Una polvere biancastra, finissima circolava lieve lieve nell’aria come neve microscopica. Facemmo qualche passo sul pavimento duro come il marmo coperto di foglie morte macerate dal tempo.

Che delusione!... non c’era niente.

Alle pareti, piano piano, iniziarono a prender corpo strane forme. Striature e macchie pallide di colori. Si contorcevano, s’amalgamavano, s’univano in braccia, mantelli, figure. Le pareti erano affrescate. Ci avvicinammo. Allungai una mano, al primo sfiorare, un lembo d’intonaco colorato si staccò; l’attimo d’indovinare una mano che sbriciolava nella mia.

Era quella la pittura.

Ce ne andammo senza fretta per ritornare a casa. Negli occhi ancora l’immagine di quegli affreschi crivellati dagli spari delle mitragliatrici. Non era poi una grande scoperta, sapevamo già che durante la guerra molte persone del villaggio erano state fucilate là dentro.

(Estratto del romanzo di Giovanni Buzi, Il Giardino dei Principi, Roberto Massari Editore, 2000)